lunedì 31 marzo 2014

The Startup Life - Ovvero auguri e figli maschi!

Questo post si ricollega al precedente e si basa su un articolo che ho scritto di recente.
Mi chiedono spesso, troppo spesso, se è figo avere una propria compagnia e soprattutto come si trovano gli investitori.
In questo caso, come in quasi tutto nella vita se escludiamo la cucina, non ho la ricetta ma solo un po’ di esperienza, e mi limiterò a questa nello scrivere quanto segue.
Facendo il punto sull’attuale situazione della nostra compagnia, potrei dire che non siamo in ascesa, ne in discesa, ma stabili. E questo in genere non è bene, perché i dettami del successo di una startup impongono numeri da capogiro, e se i numeri comunque non crescono, difficilmente attirerai altri investimenti e difficilmente avrai i mezzi per crescere. Perché fare startup, nel caso tu abbia “solo” una buona idea e pochi mezzi a disposizione, significa cercare soldi per metà del tuo tempo, e nell’altra metà assecondare chi i soldi te li ha già dati o in qualche modo può darteli. E questo nessuno me lo aveva detto.
Ma a cosa servono questi soldi? Non bastano un computer, una buona connessione e una redbull?
Il problema della startup è quella visione un po’ bohémienne che si ha di solito: siamo tutti li a pensare di fare una nuova Instagram in un bar, in due persone, con pochi spicci e conoscenze tecniche. Poi arriva Facebook e ti compra per un miliardo di dollari.
La realtà è un tantino diversa.
La startup è per prima cosa un’impresa, più piccola, più snella, ma è pur sempre un’impresa. Questo significa che richiede della burocrazia, la quale richiede quasi sempre un legale e un contabile, che costano. Per dire una banalità, difficilmente potrete vendere un servizio senza la consulenza di un legale, e nel nostro caso, solo per essere sicuri che una cosa fosse bianca o nera, abbiamo speso 500 euro per sentirci dire che era tutto molto grigio. Se poi cominci a farti aiutare da freelancer, sviluppatori e chicchessia, ecco che si entra nell’universo parallelo dei contratti, con relativi pagamenti di fatture e successive detrazioni.
La conclusione di tutto questo vangelo è che la startup ha bisogno di soldi per partire ed andare avanti. Qui entra in gioco la zoccola che è in ognuno di noi, perché cercare soldi per la proprio impresa è un po’ come prostituirsi e purtroppo la foga di avere soldi facili e subito fa si che si operino scelte quanto meno sbagliate.
Sembrerebbe, e sottolineo il condizionale, che la strada obbligata per iniziare l’avventura sia entrare in qualche acceleratore / incubatore che in cambio di una percentuale dell’azienda (dell’ordine del 10%) ti da soldi (15000 - 25000 euro), un ufficio, ti preparano con una serie di workshop e mentori e ti mettono a disposizione la proprio rete sociale (detta volgarmente “network”). Per entrare in questi incubatori bisogna fare preventivamente domanda, se questa viene accettata e selezionata allora vieni invitato a fare una presentazione del tuo prodotto/idea (gliela devi vendere) e se hai successo vieni chiamato per far parte del prossimo batch di startup. La fase di incubazione richiede che tu sia fisicamente presente nell’incubatore per almeno 3 mesi, e questo grava sui costi se significa trasferirsi in un’altra città.
Per la nostra startup siamo finiti nei Balcani, partendo da Berlino, da molti ritenuta la Silicon Valley d’Europa. Il punto è proprio questo, Berlino e’ affollata di startup e startuppari, quindi la concorrenza è davvero agguerrita. In generale gli acceleratori cercano di diversificare il proprio portfolio di startup con idee di business diverse tra loro e in settori diversi. Per cui fare domanda ad un incubatore berlinese significa fronteggiarsi con altre centinaia di candidati ed altrettante idee a cui si sommano quelle già entrate nei batch precedenti, e siete così sicuri di avere un’idea tanto buona e originale? Voi probabilmente ci credete, il problema è convincere chi vi deve selezionare.
Infatti noi abbiamo fatto domanda a diversi acceleratori berlinesi, senza ottenere il ben che minimo responso, e a guardar bene le loro condizioni di ingresso spesso non sono nemmeno così vantaggiose rispetto ad altre città meno blasonate (meno soldi a fronte di una maggiore percentuale di impresa). A questo punto cominciammo a fare domande in posti che nemmeno sapevamo posizionare su google maps: Vilnius, Tallin, …
E dopo pochi giorni fummo chiamati e selezionati da un incubatore balcanico. E siamo partiti. Di corsa.
Ora che il programma e’ finito, possiamo dire che ne e’ valsa la pena?
La domanda da cui partire è “perché hai fatto una startup?”: la risposta nel mio caso non e’ una sola. In primo luogo ero stufo di lavorare per persone dalla discutibile visione aziendale e leadership senza ottenere nulla a livello personale in cambio, ed essendo io un tecnico, ogni volta che mi trovavo a parlare con product-qualcosa o country-qualcosa o chicchessia-commerciale mi scontravo con un muro di piombo, e per quanto io mi sforzassi di esser chiaro, dall’altra parte era come se si parlasse una lingua diversa. In secondo luogo, forse peccando un po’ di presunzione, facevo fatica a trovare una posizione lavorativa che mi calzasse a pennello. A Berlino se sei sviluppatore un lavoro lo trovi, ma io personalmente non mi sono mai visto come uno sviluppatore, e non parlo meramente di titoli di studio, ma soprattutto di attitudine personale. Volevo fare qualcosa di diverso, a mio modo, coi miei standard.
Sono sicuro che queste risposte andranno benissimo a quanti ora come ora stanno pensando di licenziarsi e mettersi in proprio, ma vi consiglio di leggere fino alla fine del post per capire se ne vale davvero la pena.
Il programma e’ consistito in estenuanti mentor session, ovvero una serie di sedicenti esperti che veniva a parlare con noi della nostra idea, elargendo consigli a profusione (quando andava bene) o pareri spassionati; in 2-3 workshop su tematiche varie (di cui forse il più utile e’ stato quello inerente la presentazione della propria azienda), e un demo-day finale in cui ammaliare investitori accorsi a frotte (credo che in realtà non ce ne fosse manco uno). In tutto questo, per i 3 mesi in cui siamo stati li, dai nostri investitori veri e propri (i gestori dell’acceleratore) non abbiamo ricevuto nulla, il ben che minimo aiuto, salvo poi sentirci dire che eravamo stati lenti nel rilascio nel prodotto e che avevamo gestito male i soldi che ci avevano dato.
Nei mesi che siamo stati nei Balcani abbiamo avuto occasione anche di partecipare ad una blasonata competizione tra startup (che poi rendiamoci conto, competizione tra startup?!? L’analogia con la prostituzione la si vede anche con queste gare di bellezza) e l’abbiamo vinta! Senza nemmeno avere il prodotto live, eppure questa vittoria ci ha dato una buona copertura mediatica nella zona.
L’errore fondamentale nell’aver scelto i Balcani sta proprio in questo, tutto quello che abbiamo fatto ed ottenuto nei tre mesi e’ rimasto nei Balcani, tornati a Berlino siamo entrati nell’oblio. Dimenticati dai nostri investitori (da ogni punto di vista, economico e personale), ignorati dai media (visto che alcuni di quelli balcanici oltre alla barriera linguistica hanno anche l’aggravante del cirillico), con un network inutile in terra tedesca (essendo attivo solo nei Balcani) e soprattutto in una città molto più costosa.
Quindi se posso permettermi di darvi un consiglio (anzi due): la città in cui risiede il vostro finanziatore conta. Se avete un prodotto fortemente focalizzato su un mercato (nel nostro caso tedesco) dovete trovare gente che può tornarvi utile su quel mercato. Il passaparola, le raccomandazioni (non quelle all’italiana…) e le conoscenze sono vitali per farvi conoscere e trovare persone che possano consigliarvi (i cosiddetti advisor).
Senza gente del luogo, o che conti veramente, rimarrete solo due ragazzi che stanno facendo un sito internet, come milioni nel mondo. Ci vuole proprio quella persona a cui piacete tanto e che vi presenta quella persona che vuole investire tanti soldi in una cosa proprio come la vostra. Insomma e’ questione di culo, e la fortuna aiuta gli audaci, ma soprattutto quelli che conoscono la gente giusta.
Tornando alla domanda di prima, il perché ho voluto creare una cosa mia, parlo da tecnico e non da business-man, avendo io la carica di CTO ed essendo stato per i mesi balcanici l’unico sviluppatore dell’intera piattaforma: per quanto detto sulla questione del dialogo con capi o colleghi, confermo che nel mio caso e’ stato lo stesso inferno amplificato dalla pressione per i soldi (se non hai il prodotto da vendere, o se non funziona, come li fai sti soldi?). Purtroppo, e vorrei dire che questo e’ stato un mio errore di valutazione, mi sono ritrovato ad essere l’unico tecnico a fronteggiare gli investitori e il mio partner, tutti pressoché ignoranti in ambito di ingegneria del software, e con la bocca piena di parole tipo MVP, lean startup, agile development, lette in giro senza cognizione di causa, ovvero senza capire quando certi criteri sono applicabili e quando no. Soprattutto considerato che ero un unico sviluppatore. Mi aspettavo a momenti che mi chiedessero di fare Scrum con me stesso… Io comunque vengo da ambiti cosiddetti enterprise, con rilasci scanditi da ben precise procedure e tempistiche dettate dai canonici flussi di sviluppo (ricerca-sviluppo-test) che comunque sono più dilatate. Mi sono ritrovato invece con l’alito sul collo per rilasciare qualcosa in tutta fretta per conseguire obiettivi campati per l’aria e soprattutto per far contente persone a cui non interessava minimamente cosa stessi facendo. E con questo rispondo anche alla seconda parte del perché di cui sopra: non sono nemmeno riuscito a fare qualcosa come avrei voluto, ancora una volta ho dovuto sottostare ad improbabili richieste che non hanno portato a nulla. E nonostante le tempistiche con cui ho messo live un prodotto, sono stato accusato di lentezza. E qui la gara tra la mia autostima e l’istinto omicida e’ stata mediata dal mio spirito zen conquistato con anni di yoga.
Come dicevo, la cosa peggiore, e’ essere soli a parlare una lingua a quanto pare incomprensibile, per cui il mio consiglio, se decidete di sviluppare un prodotto informatico/informatizzato, e’ di essere almeno in due sviluppatori e ovviamente l’imprescindibile figura business. Le tempistiche richieste sono talmente ridotte che da soli non ce la farete mai.
Probabilmente la passione che ho messo nella cosa ha cozzato davvero con la mia gestione dello stress, per cui ho messo dei limiti alla mia quantità di lavoro giornaliera; qualcuno ha detto che la startup e’ cosa da giovani, e io forse a 33 anni tanto giovane non sono più, ma credo con tutto me stesso che la startup e’ cosa per insonni o cocainomani.
Come si evincerà da quanto scritto sinora, fare una startup ha molte implicazioni personali, ma mai avrei immaginato che ne avesse altrettante inter-personali.
Quando ti viene il lampo di genio, cominci a parlare della tua idea con amici e conoscenti per capire se la cosa potrebbe funzionare o meno, e in genere noi abbiamo riscontrato molta positività. Poi cominci a parlarne con potenziali clienti, e anche lì devo dire che abbiamo avuto un certo successo. Infine lanci il prodotto e tutti quelli con cui avevi parlato si dileguano.
Come dicevo all’inizio del post, quello che conquista gli investitori sono i numeri, e per avere un certo numero di utenti la prima cosa che fai e’ chiedere insistentemente ai tuoi contatti sui social network di iscriversi, tanto per farti un piacere. Bene, lo abbiamo fatto in tre persone, raggiungendo quasi 1500 contatti, e credo che meno del 5% ci abbia fatto questo favore, e mi rifiuto di pensare che ignorassero l’importanza della cosa.
In fin dei conti, aprire un sito internet e’ come inaugurare un negozio: quante più persone ci sono all’inaugurazione migliore sarà l’impressione che si desterà sui futuri clienti.
Oltre all’iscrizione, la cosa ancora più scandalosa risiede nei like alla pagina ufficiale del progetto, alle condivisioni dei post o del progetto in se, cose che richiedono un frazione di secondo, che se a qualcuno fregasse un attimo di te e di quello che fai non dovrebbero costare nulla.  E invece l’oblio anche in questo caso, ed e’ difficile non ripesare alcuni rapporti alla luce di certe cose, con tutto il cinismo del mondo e consapevole che Facebook non è lo specchio della mia rete sociale.
Purtroppo vi consiglio di farci i conti con questo aspetto, o meglio a non farci conto, soprattutto se avete in mente qualcosa che fa del viral marketing il suo carburante.
Lo stesso discorso vale per potenziali clienti, tra il dire e il fare c’è di mezzo la via lattea.
Insomma, per concludere questa odissea, posso assicurarvi che come esperienza vale la pena di essere fatta, fosse altro per temprarvi e mettere a segno un nuovo limite di sopportazione; inoltre si imparano moltissime cose e in fretta, a volte inutili ma comunque sono novità. Alla fine la vostra startup sarà davvero come un figlio per voi, e la delusione è quando non la vedrete crescere quanto e come vorreste, ma comunque non la abbandonerete tanto facilmente. Se poi pensate di pagarci l’affitto di casa e magari mettere da parte un po’ di euro, allora affidatevi al buon vecchio Gianni Morandi: uno su mille ce la fa, ma quanto è dura la salita!