sabato 29 dicembre 2012

Andiam andiam nella start-up a lavorar



Prologo

La start-up per definizione é la fase iniziale di (s)lancio di un’azienda. Nessuna azienda puó restare start-up a vita: da qualche parte bisogna pure cominciare, ma il cammino davanti a se (forse in salita) deve pur portare da qualche parte...
Dai post precedenti potrebbe evincersi una mia allergia alle start-up: cosí non é, ma non le vedo nemmeno come una soluzione definitiva. Questo é dovuto alla mia personale esperienza in una start-up, con una grande idea, con spalle (finanziarie) forti ma naufragata sotto la totale mancanza di una visione e organizzazione interna. É restata start-up troppo a lungo. 
Uso il passato perché la mia esperienza di piú di un anno con questa “azienda” é stata bruscamente interrotta per insolvibilitá della stessa  questo 7 Dicembre, ma il mio contratto verrá chiuso solo alla fine di quest’anno. Nessuno dramma, in fin dei conti me lo aspettavo, e con me sono stati liquidati altri 10 dei quali molti con coniuge e prole, ma quest’avvenimento mi ha messo davanti ad una scelta. Vado a lavorare in un’altra start-up oppure no?

Passato remoto

Come sono arrivato ad una start-up? Nella risposta a questa domanda c´é anche il motivo per cui di fatto ho lasciato l’Italia...
Io provengo dal “ricco ed opulento” Nord-Est italico, dove mi sono laureato un po´di anni fa in Ingegneria; successivamente ho iniziato a lavorare per una grossa societá italiana (quotata in borsa e con migliaia di dipendenti) che si occupa tra le altre cose di software medicali. Nello stesso anno in cui ho iniziato a lavorare ho frequentato anche un master universitario. In Italia ho avuto da subito un contratto a tempo indeterminato, ma negli ultimi tempi avevo anche tutti i sintomi di un esaurimento nervoso (compresa una simpatica gastrite che mi costringeva a divertenti tour nei pronto soccorso di tutto il Triveneto). La mia vita si svolgeva prima in macchina (80 km al giorno di autostrada per andare e tornare dall’ufficio), poi 8 ore di lavoro e una di pausa pranzo con orari pressoché marmorei (guai a sgarrare di un minuto), soddisfazioni nulle, pause caffé (a pagamento) cronometrate e chiacchiere tra colleghi (in orario di lavoro) a malincuore accettate. Inutile dire che lavorare per gli ospedali implicava degli standard di qualitá, affidabilitá e sicurezza al di sopra delle nostre possibilitá, e questo implicava problemi e urgenze che a volte era difficile gestire. A tutto questo va aggiunto che non erano previsti pranzi e / o cene aziendali (se non quella di Natale che ci auto-organizzavamo e pagavamo), ne tantomeno benefit di alcun tipo e soprattutto solo acqua gratuita, nessuna carriera e zero aumenti di stipendio. Dopo anni di questa vita, semplicemente non ne potevo piú. Mi sentivo vecchio dentro, immobile e inorridito dalla persona che stavo diventando.
Questo per darvi uno spaccato del mio stato mentale e degli ambienti (la grossa societá e gli ospedali) in cui ho lavorato per quasi 5 anni. Poi mi si chiede come ho fatto a trasferirmi a Berlino per lavorare in una startup che si occupa di videogiochi. Nessun fattore moda o bohemienne, semplice necessitá. Sarei andato anche in Nuova Zelanda se l’occasione in quel momento fosse arrivata da lí.

Passato prossimo - Presente (ancora per poco)



La decisione di venire a Berlino l’ho presa ad Amsterdam, conversando col mio compagno di viaggio, che giá viveva a Berlino e lavorava nella start-up in cui sarei stato assunto.
Mi disse che stavano cercando gente che sapesse programmare (in quel caso giochi) e gli buttai lí l’idea di propormi al suo capo. Era il 2 giugno. Il primo luglio il mio amico mi chiede di mandargli il mio curriculum. Il 18 Luglio sono a Berlino per il colloquio (totalmente spesato dall’azienda). Il 20 luglio ho rassegnato le dimissioni dal mio lavoro in Italia. É stato semplice, semplicissimo. Il colloquio é stata una formalitá, quasi il volermi far vedere la sede di lavoro per farmi capire se potesse piacermi oppure no. Mi hanno subito offerto quello che chiedevo, pertanto anche la trattativa é stata banale.
E ora sono sicuro che metá degli italiani che vive a Berlino potrebbe giá odiarmi, ma comunque dovevano convincermi a lasciare un altro lavoro, per cui dovevano essere persuasivi.
Il primo giorno di lavoro é stato alienante, non capivo davvero in che luogo fossi.
L’idea che ho avuto é stato di un ambiente caldo: la sede é in un ex fonderia restaurata con un bel giardino privato davanti. I pavimenti sono rivestiti di moquette per cui é normale che alcuni colleghi si levino le scarpe per restare scalzi o indossare delle ciabatte. Ci sono due cucine provviste di tutto (anche la lavastoviglie) in cui ognuno puó cucinarsi quel che vuole. Ci sono due enormi frigoriferi in cui riporre le proprie vivande (basta segnare il proprio nome con un pennarello). C’erano casse con tutte le bevande possibili, diversi tipi di succhi di frutta freschi (di quelli da allungare con l’acqua) e la macchina del caffé / cappuccino industriale. Appena sono arrivato, il capo delle risorse umane mi ha scattato una foto, successivamente affissa insieme a quella degli altri colleghi con nome e dipartimento di appartenenza, e soprattutto mi ha preparato tutti i documenti (che nel mio caso, non conoscendo una parola di tedesco, é stata una manna dal cielo). Sulla mia scrivania ho trovato tutta la cancelleria di cui necessitavo, e quando ho mandato un’email a tutta l’azienda per presentarmi, non sono certo mancati i “benvenuto” di risposta. Nemmeno una settimana che ero lí, e si parte con l’organizzazione della prima festa: la cena spagnola! Praticamente essendo di 18 nazionalitá diverse, i singoli gruppi organizzavano una cena per tutti i colleghi a tema della propria nazione e interamente spesata dall’azienda stessa. Altre due settimane e si parte con la festa di halloween per cui é stato addirittura preso un locale intero con buffet e discoteca annessa e tutti gli addobbi del caso. Anche in questo caso tutto spesato. E cosí via, compresa la festa di Natale in ristorante...
Ogni giovedí in ufficio c´era la cosiddetta colazione aziendale, ovvero una colazione (omnicomprensiva) offerta dall’azienda e organizzata dalle risorse umane.
Bene... potrei anche parlarvi della maglietta omaggio, dei barbeque, ma ora é finalmente arrivato il momento di smontare questo castello fatato.
Partiamo con lo smentire subito il clima familiare: é vero che ci sono due cucine, ma queste vanno pulite, cosí come le stoviglie (per lo meno bisogna caricarle in lavastoviglie).
Per questa necessitá viene predisposto un calendario di turni settimanali divisi per dipartimenti, sará poi il capo dipartimento a dividere il turno settimanale in turni giornalieri per i propri dipendenti. Questi turni a volte inspiegabilmente saltano. Purtroppo il concetto di pulizia notoriamente é variabile da stato a stato e, senza sfociare nei soliti luoghi comuni, a volte é davvero difficile trovare una tazza pulita (tra quelle riposte dopo essere state lavate). Inoltre io ero seduto a 20 metri da una delle due cucine e, se cucinare in ufficio é una gran comoditá e un potenziale strumento di aggregazione, non lo é purtroppo la puzza che aleggia a tutte le ore (e siamo arrivati a livelli davvero intollerabili). Nei frigoriferi sono state scoperte nuove forme di vita aliena, dovute alle muffe e ai batteri che si accumulano nel cibo che i colleghi comprano ma che poi lasciano li per mesi, fregandosene di chi magari ci mette a rinfresco ogni giorno il proprio pranzo. Potrei dirvi anche che il togliersi le scarpe dovrebbe avere come condizione necessaria l’igiene dei proprio piedi, ma vivendo qui a Berlino saprete giá che non é cosí! E poi c’é sempre la puzza delle cucina che copre quella dei piedi (ma non quella del frigorifero purtroppo!).
Parliamo delle feste. Inutile negarlo, a volte fanno fatica a decollare se non arriva la vodka. Mi hanno spiegato che l’alcool qui ha una forte funzione sociale, in quanto disinibisce persone che normalmente sarebbero androidi, ma a volte (soprattutto per gli organizzatori) credo che sia frustrante, tant´é che le feste a tema sono praticamente cadute nel dimenticatoio. Inoltre non intravedo alcuna voglia di socializzare: al massimo due o tre persone appartate a parlare tra loro o comunque singoli gruppetti senza grande voglia di conoscersi. Anche la colazione del giovedí, spesso si riduceva a tante persone che si prendevano il loro panino e se lo andavano a mangiare davanti al proprio monitor invece di restare tutti seduti intorno ad un tavolo. Tant’é che é stata abbandonata anche questa a favore del mittwoch mixer, ovvero sorteggia 8 persone e mandale a pranzare insieme. Dopo svariati tentativi anche questa idea é naufragata.
Proprio il rapporto tra i colleghi, e la comunicazione tra persone con cui dividi la tua giornata, sono il vero stereotipo da smentire delle start-up. Tutto questo modo “easy” di vedere il lavoro scema all’improvviso quando ci si trova davanti alla competizione per una qualsivoglia occasione di mettersi in mostra. É vero che c´é la flessibilitá di orario (basta fare le 8 ore) ma é anche vero che se arrivi in ufficio alle 9 e ti trovi ad aspettare un collega che arriva alle 11 per 2 giorni di fila, oppure che torni dalla pausa pranzo, mentre tu alle 13 eri giá pronto per far partire una consegna, alla fine ti arrabbi. Inoltre nessuno é disposto a condividere fino in fondo le proprie esperienze e conoscenze con gli altri, il che a volte si riduce a passare settimane a risolvere problemi che erano giá stati risolti settimane prima.
Il lavorare a compartimenti stagni (il team esiste solo a parole) si ripercuote molto anche nel dover affrontare i problemi, che poi scopri essere stati causati da un altro collega, di cui ignoravi le mansioni fino a due secondi prima. Dopo piú di un anno sono giunto alla conclusione che probabilmente tutta questa chiusura e indifferenza, che porta ad una totale disorganizzazione (e quando parliamo di 100 persone questa puó essere fatale), é dovuta proprio al fatto che in questa start-up si va avanti alla giornata. La sensazione il lunedí é proprio quella di “cerchiamo di arrivare a venerdí”. Questo fa si che di posizioni per un salto di carriera se ne aprono due l’anno se tutto va bene, e la gente qui si ammazza per una carriera (minima, davvero minima).
La mia gastrite nel frattempo é passata (e non é poco); ci sono giorni in cui ammetto di essermi divertito a lavoro, e le pause caffé di mezzora in giardino a godersi quel po´di sole berlinese non hanno prezzo, ma la sensazione era di essere li quel giorno, quella settimana, quel mese, ma chissá il prossimo. Bisogna conviverci con questa sensazione. Puoi accettare una start-up, i colleghi che cambiano ogni giorno, il lavoro che a volte non si sa in che direzione va, solo se sei disposto a non pensare troppo al futuro...


Futuro

E arriviamo alla giusta (si fa per dire) conclusione.
Quest’estate, quando quel po´ di sole berlinese ci beava e rincoglioniva, il CTO della star-up in cui lavoravo ha abbandonato l’azienda, ed essendo lui uno dei due co-fondatori la sensazione é stata del capitano che abbandona la nave. Sensazione che nei mesi successivi si é tradotta in un'emorragia di persone, tendenzialmente le piú valide, e nella totale incapacitá del management di contenerla. Quello che mi ha molto colpito é stata proprio la sensazione di malessere che immediatamente ha cominciato ad aleggiare negli uffici, e la totale assenza di empatia dei capi verso questo veleno che stava intossicando l’ambiente. Ad ottobre finalmente qualcosa ha cominciato a cambiare, ma era evidentemente troppo tardi. A me personalmente é stato offerto un salto di carriera (solo come titolo ovviamente), un aumento di stipendio, un bonus annuale e il prolungamento del periodo di preavviso da 4 settimane a 12. Il che comunque ha lasciato quel sapore dolceamaro del ricatto, un modo “legale” per trattenerti in quell’azienda. In Germania, dove la flessibilitá lavorativa é un dato de facto, con tre mesi di preavviso non ti assume nessuno. Alcuni dipendenti evidentemente non hanno ceduto a questo ricatto e la fuga é continuata imperterrita. Il grosso segnale d’allarme era che queste persone non venivano rimpiazzate; da 120 dipendenti di Gennaio siamo ben presto arrivati a 60 in meno di un anno.
A fine Novembre, con soli dieci giorni di preavviso (in barba ai 3 mesi dovuti) il 15% dell’azienda, me compreso (perché “troppo costoso”), siamo stati convocati e sollevati dal nostro incarico. Questo senza alcun indoramento della pillola, e palesemente in violazione del contratto di lavoro. Io personalmente ho giocato bene le mie carte (italians do it better) e oltre al pagamento del mese per intero ho ottenuto una degna buonauscita, ma temo che in molti presi dallo sconforto abbiano accettato il proprio destino senza avanzare richieste.
Il mio 2013 inizierá quindi con un bel “vita a Berlino 2.0” e la domanda sorge spontanea: cosa faró? Credo che mi metteró a studiare tedesco seriamente, ecco cosa faró. La mia integrazione in questa cittá passa prima di tutto dalla lingua. Quindi almeno un mese voglio dedicarlo a questo, poi spero di essere in grado di sostenere un colloquio in madre lingua e a quel punto faró le mie valutazioni. Prenderó in considerazione un’altra start-up? Diciamo che le reputo una buona palestra per imparare qualcosa di nuovo, per cui si. Ma questa volta vorrei avere la lungimiranza nel lasciare l’azienda io prima che lo facciano loro...

lunedì 10 dicembre 2012

I 10 (o forse meno) motivi per cui lascerei Berlino domani (o forse oggi)


Siccome non é tutto ora quel che luccica, ho stilato una personalissima lista di quelle che sono le ombre di questa cittá e che a volte mi gettano nello sconforto.
Probabilmente ai piú risulterá un concerto della banalitá, ma vi assicuro che non sono il primo a dire che tutti gli stereotipi che abbiamo sulla Germania (quelli positivi) decadono dopo il primo mese di vita a Berlino (e poi qualcuno dice che Berlino non é Germania, benissimo, ma devo ancora verificarlo...). 
Partiamo:
  1. Il clima, inevitabilmente brutto. E pare che il mio primo e unico inverno sia stato tra i piú miti degli ultimi 50 anni. Ma forse al di lá della rigiditá che comunque c´é, quello che spaventa é la lunghezza del periodo freddo e la brevitá delle giornata in questo periodo (alle 16 é gia buio!). Per dire, l’anno passato ha avuto un primo periodo di “caldo” (20 gradi o poco piú) solo nella prima settimana di maggio! Da novembre a fine aprile ha fatto freddo. Che poi ci siano mille modi per farsela passare questo é indubbio (chi ha detto vodka?), ma comunque la mancanza di sole per un mediterrOneo come me é dura, e non ci si puó fare quasi niente (a meno di aprirsi un bar a Sharm el Sheik e farci una capatina il weekend).
  2. La burocrazia. Premetto che non so cosa debba fare un tedesco se si trasferisse in Italia, ma io parlo per la mia esperienza qui, da italiano (quindi europeo) e con un lavoro giá per le mani, quindi da “privilegiato”. Un incubo. Non aggiungo altro. E non oso immaginare il giorno in cui lasceró la Germania. Tutti dicono che basti de-registrarsi dal comune di Berlino per chiudere automaticamente tutto, ma quando ho cambiato indirizzo e quindi ho modificato la mia precedente registrazione, ho dovuto comunicare manualmente l’indirizzo a qualsivoglia ente (persino al mio operatore telefonico mobile). E in questo frangente é andato perso il nuovo bancomat che mi dovevano mandare per posta. In compenso ho ricevuto tre tessere per la krankenkasse.
  3. Le case. Quí si sfocia nel grottesco e non me ne vogliate, ma adesso venitemi a dire che non vi mancano tapparelle e bidet... suvvia! Capisco l’inverno che di luce non ce n’é, ma d’estate invece? Che fa giorno alle 4 a momenti? Per quanto buone e scure e spesse siano le vostre tende, ad una bella serranda o persiana non c´é alternativa. Sul discorso igiene intima personale poi ci torneró dopo, ma é strettamente collegato alla latitanza del mitico bidet. Si lo so che ci sono molti modi per sopperire a questa mancanza, e li sto sperimentando tutti anche con qualche effetto collaterale (vedi allergie), ma la comoditá di un bidet é impareggiabile. Punto.
  4. La sporcizia. In senso lato. Se escludiamo poche vie o qualche quartiere un po´piú fighetto (vedi Charlottenburg o Schöneberg), Berlino é una cittá sporca. Difficilmente se uscite di casa con scarpe bianche o pantaloni bianchi li riporterete a casa dello stesso colore; se poi prendete un qualsivoglia mezzo pubblico, allora non ci sperate proprio! In alcuni quartieri poi a tutto questo dovete aggiungere una piú che probabile doppia suola di cacca di cane (sempre che non camminiate a testa china scrutando il marciapiede come cani da tartufo). I locali, per chi viene dall’Italia, risulteranno al limite del tollerabile, ma io personalmente li trovo affascinanti (anche la peggiore delle bettole mi ha regalato serate indimenticabili): bisogna fare i conti con tavoli e panche sporchi; il piú delle volte e questo é dovuto alla mancanza delle tovaglie che qui non vengono usate. Quando va bene c´é una tovaglietta monouso, altrimenti si mangia sul nudo legno. In alternativa alle panche o sedie di legno, spesso si trovano poltrone o divani che hanno l’aspetto e anche un’alta probabilitá di essere stati raccattati per strada. Parlando di ufficio e ambiente di lavoro a tratti é anche peggio, ma anche qui posso solo esprimere considerazioni sulla mia personale e unica esperienza. Nelle start-up spesso vi é una cucina ad uso comune, con lavastoviglie. Bene, io vi farei vedere la condizione di questa cucina a fine giornata: un campo di lotta col fango! E mi chiedo come sia possibile che tirando fuori le tazze dalla lavastoviglie queste siano ancora piene di croste e cose indecifrabili. Alla cucina é spesso annesso un frigorifero (o piú di uno) sempre ad uso dei dipendenti: ormai ho la certezza che il virus d’ebola é nato in uno di questi. É prassi comune aprire le cose, conservarle in frigo e lasciarle li fino al prossimo giubileo. La mia paura é che qualcuno le mangi pure. Non parliamo dei bagni poi. Il punto é che anche in Italia avevamo spazi comuni che usati per 9 ore di fila da un gran numero di persone a fine giornata (o settimana) erano pari ad una latrina, ma se non altro c´era un’impresa di pulizia che se ne occupava. Quí, nel mio ufficio, non ne ho mai vista una. Sospetto che qualcuno ogni due settimane pulisca i bagni, ma non ne ho la certezza! Per la cronaca ho rimediato qualche colite e nulla di piú in questi mesi. Niente di grave insomma.
  5. I tedeschi. E vabbé. Come dicevo nell’elenco dei pregi, alcune cose le avrei messe anche tra i difetti. E infatti ho inneggiato io per primo alla loro individualitá che li porta a non cagarti di striscio almeno che tu non lo voglia, il che non crea rapporti falsi e ipocriti. Ma questo non é vero per quanto riguarda il rispetto della persona che hanno davanti, soprattutto se per qualche motivo sta invadendo il loro spazio o gli si sta facendo perdere tempo. Camminando per strada la gente ti viene semplicemente addosso sfondandoti un braccio, il torace o una gamba e non aspettatevi un “entschuldigung mich” o un “sorry”, probabilmente hai la tua dose di colpa se quel tedesco ha pensato di toglierti dal mondo: forse col tuo grosso culo stai occupando troppo marciapiede affinché lui possa passare agevolmente e in scioltezza, o forse non stai camminando perfettamente in linea retta, il che gli impedisce di superarti con facilitá (vagli a spiegare che stai schivando cacche di cane, pozze di vomito e bottiglie di vetro rotte). Lo stesso comportamento é evidente anche per le strade. Macchine, cicli e monocicli raggiungono un grado di incivilitá impensabile per qualsiasi italiano. Le piste ciclabili non sono sempre ben distinte dal marciapiede (di sicuro quasi mai ne sono separate) e a maggior ragione di notte puó capitare che un piede ti finisca per sbaglio oltre il limite consentito : questa caro pilota di formula 1 su due ruote non é una buona scusa per uccidere nessuno! Gran parte dei passaggi pedonali non prevedono strisce o segnalazioni in particolare; questo, se lo sommate alla naturale propensione dei tedeschi a correre come matti coi loro mezzi a motore, rende l’attraversamento di una strada di Berlino un vero e proprio sport estremo! Passiamo ora al capitolo file (croce e delizia di noi italici). Qui a Berlino ho scoperto che non sei obbligato a fare file, mi spiego: la fila c´é (anche se a volte non é cosí chiara) ma tu puoi fare a meno di farla, ti becchi quel centinaio di occhiatacce ma nulla di piú. E se tu sei il pirla che si é messo in fila tre ore prima per entrare in un locale, e il furbetto appena arrivato ti passa davanti, non venirmi a dire che non avresti voglia di mettergli le mani addosso! Inoltre, non capisco perché sistematicamente quando c´é una fila devono starti attaccati addosso facendoti percepire letteralmente il loro fiato sul collo, per non dire altro! Cosa pensano, che deflorandomi il retto io per miracolo faccia sparire tutti quelli davanti a me? E poi diciamocelo, non si lavano. A loro discolpa posso solo dire che non hanno il bidet. 
  6. Il tedesco, inteso come lingua. Questa é una ferita ancora bella sanguinante per il mio orgoglio. Nella vita ho giá affrontato lo studio di lingue straniere, anche da autodidatta, e quindi (pur non conoscendone mezza parola) non ero intimorito dalla lingua tedesca. Ebbene, dopo 3 corsi (A1 e A2 presso il prestigiosissimo Goethe, di nuovo A2 in ufficio con insegnante privata) io non ci capisco ancora niente. Il tedesco ha una grammatica estremamente rigida, che fa uso di regole “matematiche” e soprattutto dei famigerati “casi”, il che fa si che la struttura della frase, finanche della singola parola, hanno un’importanza fondamentale per il senso della stessa. E questo porta alla seconda terribile veritá: il tedesco, a differenza dell’inglese per esempio, non é scalabile! O lo sai, o non lo sai (poi sta alla faccia tosta dell’individuo buttarsi o meno in una conversazione). A mia discolpa posso anche dire che alla teoria dei corsi non ho fatto seguire molta pratica, ma in ufficio di tedeschi ce ne sono davvero pochi (nel mio dipartimento manco uno)  e le scuole (come la cittá) sono stracolme di italiani. Ma questo é il prossimo punto...
  7. Gli italiani a Berlino. Io mi sono circondato di italiani, i miei amici qui sono tutti italiani, ma non posso negare che ho conosciuto nostri connazionali davvero al limite del ridicolo e da cui per tanto rifuggo. Li vedi e li riconosci da un chilometro di distanza, sono gli italiani che vengono qui perché “vivere-a-Berlino-fa-figo”. Sono tendenzialmente alternativi che pensano di campare d´”arte” a Berlino (alzi la mano chi non conosce qualche italiano a Berlino che fa il fotografo, il dj, il musicista, il pittore o l’attore) peccato che cosí non é; peggio sono i dandy esaltati dall’onda internettiana che vengono qui pensando di aprire una start-up in 5 minuti: magari ci riescono pure, ma in 2 minuti poi la chiudono. Io, nel mio piccolo, ho capito che a Berlino non v´é certezza per nessuna cosa. Se si vogliono fare soldi con arte e internet io punterei su altri lidi. Che poi Berlino sia figa, questo non lo metto in dubbio, ma per favore non ditelo troppo in giro.
  8. C´é un futuro a Berlino? Nel senso che ora ci sto bene e mi diverto, ma ho 32 anni e nessun legame sentimentale da farmi fare progetti a lungo termine; cosa succederá tra 3-4-5 anni quando mi avvieró seriamente verso i 40? Cosa avró per le mani se resteró in questa cittá? Una carriera? Ne dubito... la scena tecnologica di Berlino ruota su pochi grossi e tanti piccoli, i quali muoiono e rinascono ogni giorno per permettere di avere un vero percorso al loro interno. Una casa? Non penso... i prezzi stanno raddoppiando nell’arco di 5 anni, la gentrificazione é in atto e il debito pubblico della cittá in vertiginoso aumento. Una persona molto saggia una volta mi disse che a 40 anni sei giá in ritardo per molte cose... ecco, io vorrei arrivarci puntuale!
La mia personalissima classifica dei lati oscuri di Berlino finisce qui. Ma come? Non dovevano essere 10 punti? E no! Se lo fossero stati la bilancia sarebbe stata pericolosamente in equilibrio. Il fatto che i lati positivi siano superiori in numero a quelli negativi fa si che io decida di restare qui. Finché dura...